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L'opinione - Non solo Gromola, ma la Città dei Venti Borghi
Aurelio Di Matteo
23 agosto 2012 14:18
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È fuori di dubbio che Gromola sia una bella realtà urbanistica, che vada recuperata alla vivibilità e al decoro urbano e sociale. I propositi espressi dall’impegno del vice sindaco Ragni e del consigliere Longo, di certo con il consenso unanime del Consiglio, non lasciano dubbi sui sicuri risultati. Di questo mi compiaccio perché il borgo di Gromola è il luogo di Capaccio al quale mi sento più empaticamente legato, sia per avere svolto lì per sette anni la mia attività professionale, sia per averlo, molto tempo prima, conosciuto dalle bellissime e intense pagine di storia scritte da un mio caro amico, quelle che considero una vera epopea popolare della recente storia del paese, “Assalto ai latifondi”. Ritengo, però, che l’impegno, anche economico, dell’Amministrazione comunale si rivelerebbe ben presto vanificato e il luogo, pur rimesso a nuovo e arricchito dalla presenza di alcuni uffici, destinato in breve tempo all’odierna emarginazione, se gli interventi prefigurati non s’inserissero in un più ampio e generale progetto di pianificazione e di caratterizzazione dell’identità di tutto il territorio. Questi propositi potrebbero essere la premessa intorno alla quale raccogliere e unificare le indicazioni che il Consiglio comunale sarà chiamato, spero a breve, a dare per la stesura del PUC. L’identità di Capaccio-Paestum non è determinata solo dai Templi. A ben vedere, infatti, lentamente anche l’identità complessiva dell’area archeologica, unico esempio di cinta muraria pervenuta dall’antichità in tutta la sua interezza, si è ridotta all’immagine dei tre Templi, poiché il resto è attività privata, coltivazione e allevamento. C’è, invece, un’identità più articolata, che deriva dalla storia dell’era cristiana e della modernità succeduta a quella classica, da un ricco paesaggio rurale e da una connessa architettura unica nel suo genere. Entrambe sono un’eccezionale ricchezza culturale e un inestimabile patrimonio antropologico che altrove hanno rappresentato il fattore fondamentale del destino economico di un territorio, poiché il retaggio storico e artistico è stato trasformato in “oggetto” commercialmente redditizio. La campagna di Capaccio è ricca di queste testimonianze, quasi tutte in condizione di degrado e di abbandono. Salvaguardare il mondo rurale e la tipicità del suo paesaggio significa valorizzare e conservare la cultura e la storia di un territorio, il cammino della sua civiltà e il progresso economico e sociale di una comunità. La storia vera non è espressa soltanto dai castelli, dalle regge o dalle cattedrali, ma particolarmente dalle sedimentazioni e dalle testimonianze delle attività produttive, delle piccole strutture abitative, delle stalle, dei locali per trasformare i prodotti, dei canali, dei sistemi d’irrigazione, insomma da quell’insieme che costituisce il vissuto di un’epoca e di un’area antropologicamente caratterizzata. I Borghi di Gromola, Spinazzo, Cafasso - per citare quelli più emblematici - forse rappresentano la vera storia di Capaccio, quella che ancora oggi si può leggere nella struttura sociale che ne è derivata, oltre che nella memoria di molti attempati testimoni. Il lungo cammino della Riforma agraria, per certi versi cominciata con i Borboni e conclusa non certamente in via definitiva ed esaustiva negli anni cinquanta del decorso secolo, ha segnato la vita di Capaccio. Senza di essa non ci sarebbero i borghi più belli e tipici di questa realtà territoriale che urbanisticamente e antropologicamente si può connotare come la “Città dei Venti borghi”. Lasciare nell’isolamento e nell’emarginazione questa identità, già compromessa da superfetazioni edilizie, dal degrado dell’abbandono e dalla cecità amministrativa, si corre il rischio che sparisca del tutto. Il borgo di Gromola, oggi socialmente e urbanisticamente desertificato, ignorato anche da ogni intervento di ordinaria manutenzione stradale, ha nella sua struttura e nella sua edilizia un potenziale patrimonio di storica identità che, opportunamente restaurato e con alcune destinazioni di uso pubblico, potrebbe diventare di per sé un grande attrattore turistico. Esso unisce la storia produttiva, con la settecentesca bufalara, la storia socio-economica con gli insediamenti della riforma, la storia dell’edilizia rurale, la semplicità funzionale della struttura urbanistica, dove non mancano punte di rilievo architettonico come la Chiesa di Santa Maria Goretti, opera dell’arch. Ezio Caizzi. La Bufalara opportunamente restaurata potrebbe rappresentare il luogo dove conservare e mostrare la lunga e tormentata storia dell’economia agricola dal feudalesimo alla Riforma. C’è da sperare, dopo questi propositi, che gli Enti pubblici interessati, a cominciare dal Comune, prendano finalmente coscienza che non c’è futuro turistico e sviluppo economico senza il recupero e la valorizzazione del territorio come res tipica e attivino interventi, anche di acquisizione, per riannodare il legame urbanistico, sociale e umano della “Città dei Venti borghi”, integrando, attraverso una rete concreta e virtuale, il complessivo percorso storico-culturale-estetico-ambientale, passato e presente, tradizioni e vita contemporanea, archeologia e ruralità, artigianato e moderne tecnologie, memoria e futuro. Il nuovo turismo, quello che secondo la previsione della World Tourism Organization e dell’Unione Europea avrà un tasso di crescita molto elevato nei confronti di tutte le altre tipologie, è identificabile come turismo intellettuale che, a sua volta, è cosa diversa dal tradizionale turismo culturale. Anziché prevedere inutili nuovi insediamenti, è urgente costituire reti di connessione tra i molti centri-borghi che abbiano come trasversalità una “rete ecologica” che ripercorra anche le vie di un’esperienza intellettuale. Tutti i punti di vista più accreditati, pur differenti, sottolineano l’importanza delle reti di connessione e dei sistemi di continuità ambientale, ponendo in evidenza uno dei compiti più efficaci per la pianificazione della città contemporanea, in altre parole provare a riconnettere ciò che lo sviluppo dei decenni passati ha consegnato spesso in modo frammentato. È un’articolata trama entro cui assumono un ruolo strutturante le grandi superfici dei parchi verdi, le oasi e gli ambiti naturalistici, i percorsi ecologici, i parchi a tema, il restauro e la valorizzazione dell’edilizia rurale, l’evidenza dell’edilizia industriale, gli attrattori sportivi, la costituzione di raccolte museali dedicate, la creazione di spazi culturali, ecc. Si tratta di una trama di connessione costituita da attrattori che consentono al cittadino di esprimersi e comunicare, di lavorare e di divertirsi, di fare sport e di fare cultura. Insomma la socializzazione e la vita civile, nella loro complessità, si attivano in strutture e in modi completamente diversi nei quali non rientrano più né le strade, né le piazze, tanto meno gli edifici per civili abitazioni. Le strutture di socializzazione, di centralità e di “connessione urbana” sono i “luoghi” delle attività culturali e scolastiche, degli spettacoli e degli eventi congressuali, le grandi aree fieristiche e museali, i parchi tematici e gli itinerari ambientali, i grandi centri commerciali e di ristoro, opportunamente inseriti nelle preesistenze e nelle identità consolidate. Si tratta di concepire la cosiddetta “città generica”, uno spazio senza determinazione formale, che si espande all’infinito e assume di volta in volta una caratteristica diversa. Il resto è archeologia urbanistica, marginalizzazione sociale, inutile cementificazione e, magari, tutela di interessi particolari.



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