SALERNO. Crolla la maggioranza Ursula. L’Europa reale si ribella all’ideologia del Green Deal. Bruxelles vive una crisi di consenso che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile. Il voto al Parlamento europeo che ha visto 370 voti contrari e 264 favorevoli su una proposta cardine del Green Deal europeo ha incrinato l’asse politico che aveva sostenuto la Commissione Von der Leyen dal 2019. A parlare è il Cavaliere Domenico De Rosa, imprenditore e voce critica del mondo produttivo verso l’impostazione ideologica delle politiche ambientali europee.
Cavaliere De Rosa, cosa rappresenta questo voto per l’Europa? "È la fine di un’illusione. Per anni Bruxelles ha costruito un impianto ideologico che ha scambiato la sostenibilità per un dogma. Con questo voto, l’aula di Strasburgo ha fatto emergere una verità che gli imprenditori conoscono da tempo: il Green Deal, così come concepito, non è sostenibile né per l’industria né per le famiglie. I 370 voti di dissenso, provenienti non solo dai gruppi conservatori ma anche da una parte significativa del Partito Popolare Europeo (EPP), segnano una frattura politica e culturale".
Qual era l’oggetto della votazione? "Si trattava di una misura legata al monitoraggio centralizzato delle foreste europee, un tassello tecnico ma fondamentale del Green Deal. La Commissione voleva imporre un controllo unificato su tutti i Paesi membri, riducendo ulteriormente la sovranità nazionale in materia ambientale. La proposta è stata respinta grazie all’inedita convergenza tra EPP, Conservatori e Riformisti (ECR), Identità e Democrazia (ID) e alcuni eurodeputati dei Renew Europe, stanchi di una politica fatta di vincoli e burocrazia. In sostanza, è saltato il pilastro della cosiddetta “maggioranza Ursula”.
Cosa la preoccupa di più di questa impostazione 'green'? "La deriva ideologica. Si è confuso l’obiettivo con il metodo. Tutti vogliamo un’Europa più sostenibile, ma imporre regole senza tenere conto della realtà industriale è un suicidio politico ed economico. Il Green Deal è diventato una macchina di vincoli: tasse sulle emissioni, restrizioni sulle auto termiche, obblighi per le flotte aziendali, limiti alla produzione agricola, norme forestali che penalizzano chi lavora la terra. È una strategia che ha fatto esplodere i costi energetici, eroso la competitività e spaccato il tessuto produttivo europeo".
Molti osservatori parlano di una spaccatura anche tra Stati membri. È d’accordo? "Assolutamente sì. Da una parte ci sono Paesi come Italia e Germania, che difendono la loro manifattura e chiedono realismo. Dall’altra Francia e Spagna, che continuano a sostenere la linea della Commissione per ragioni politiche interne. Ma è chiaro che la frattura non è più solo geografica: è una spaccatura tra chi vive di industria reale e chi vive di regolamenti. L’Europa produttiva non ne può più di misure pensate nei corridoi di Bruxelles da chi non ha mai gestito un’impresa, non ha mai firmato una busta paga e non conosce la parola “margine”".
C’è chi sostiene che la transizione ecologica sia comunque inevitabile. Lei come risponde? "La transizione è inevitabile, ma il modo in cui la si attua può distruggere o rilanciare un continente. Il Green Deal non è una transizione: è una conversione forzata, imposta da una burocrazia scollegata dal mondo reale. Negli Stati Uniti la transizione è stata guidata dal mercato e dagli incentivi. In Cina è stata pianificata per consolidare la supremazia industriale. In Europa è stata imposta come una penitenza morale. Noi stiamo pagando un prezzo altissimo: aziende chiuse, delocalizzazioni, disoccupazione industriale, perdita di competitività. Non è più sostenibilità, è autolesionismo".