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Clima, scienza e ideologia. De Rosa: "Non mi riconosco né nei negazionisti né nei profeti dell’apocalisse”
Comunicato Stampa
28 novembre 2025 11:02
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SALERNO. Il Cav. Domenico De Rosa, noto opinion leader e CEO del Gruppo Smeti di Salerno, analizza il dibattito su Zichichi e Rubbia, critica il catastrofismo europeo e chiede una transizione climatica fondata sui dati, sulla neutralità tecnologica e sulla competitività industriale.

Cavaliere De Rosa, questo articolo che cita Zichichi e Rubbia sta facendo discutere. Perché secondo lei? "Perché tocca un nervo scoperto: da un lato la fiducia nella scienza, dall’altro la percezione che una parte della politica stia usando il tema climatico come clava ideologica e fiscale. Quando si dice “non è colpa tua, è colpa del Sole” si semplifica eccessivamente un problema complesso. Ma quando si racconta che “tra dieci anni sarà la fine del mondo” si cade nello stesso errore, solo nel verso opposto. Io non mi riconosco né nel negazionismo né nel catastrofismo".

L’articolo sostiene che il riscaldamento globale sia “colpa del Sole” e non delle attività umane. Come risponde? "Le serie storiche serie, quelle che guardano agli ultimi 150 anni, ci dicono due cose molto semplici: il clima è sempre cambiato, ma nell’ultimo secolo il ritmo di cambiamento è accelerato e questo coincide con l’esplosione delle emissioni dovute alle attività umane. Il Sole ovviamente è il motore del clima, ma le sue variazioni nell’ultimo secolo non bastano a spiegare l’aumento delle temperature. Negarlo significa ignorare una mole enorme di dati sperimentali raccolti in tutto il mondo".

E quindi Zichichi e Rubbia sbagliano? "Io non mi permetto di “mettere i voti” a due giganti della fisica. Dico però una cosa: essere scienziati di grande valore non rende automaticamente infallibili su qualsiasi tema, soprattutto se si esce dal proprio perimetro di ricerca specifico. Nella comunità scientifica la posizione maggioritaria, oggi, è che l’uomo abbia una responsabilità importante nel riscaldamento globale. Questo non significa che il dibattito sia chiuso per sempre, ma significa che non possiamo archiviare tutto con un post sui social".

Nel testo si afferma che “non esiste alcuna equazione del clima” che colleghi le attività umane al disastro climatico. È così? "Non è corretto. Non esiste un’unica equazione magica che descrive l’intero clima terrestre, perché parliamo di un sistema complesso. Ma esistono modelli fisici, equazioni e simulazioni che legano concentrazioni di gas serra, radiazione solare, albedo, circolazioni atmosferiche e così via. Sono strumenti perfezionabili? Certo. Hanno margini di errore? Certo. Ma dire che “non c’è nessun legame” tra l’aumento di CO₂ e l’aumento delle temperature è semplicemente falso".

Il post però ricorda che la CO₂ è “essenziale per la vita” e non il nemico numero uno. È d’accordo? "La CO₂ è fondamentale per la vita sul pianeta, questo è ovvio. Il punto non è demonizzare una molecola, ma capire che cosa accade quando la sua concentrazione aumenta troppo in poco tempo. È come il colesterolo: un certo livello è fisiologico, ma se raddoppia in pochi anni cominciano i problemi. Dire “la CO₂ è vitale quindi non è un problema” è un ragionamento fuorviante quanto dire “la CO₂ è il male assoluto e dobbiamo azzerarla domani mattina”.

Nel testo si parla di “eco-ansia fabbricata per controllare le scelte e tassare anche il nostro respiro”. È solo propaganda verde? "C’è sicuramente chi usa il tema climatico per introdurre tasse, burocrazia e divieti che hanno poco a che vedere con l’efficacia ambientale. Lo vediamo in Europa tutti i giorni. Ma non possiamo ridurre tutto a un complotto per controllare la gente. Esiste un problema climatico reale e misurabile, e accanto ad esso esiste una sovrastruttura ideologica che lo strumentalizza. Il compito di chi fa impresa è proprio questo: distinguere il problema reale dalle soluzioni sbagliate".

Qual è, allora, l’errore principale che vede nelle politiche europee sul clima? "L’Europa ha trasformato un tema scientifico in un dogma politico. Ha fissato obiettivi estremamente ambiziosi senza chiedersi se il tessuto industriale e sociale fosse in grado di reggerli. Il risultato è che rischiamo di ridurre le emissioni in Europa chiudendo le fabbriche qui e spostando la produzione in paesi dove si inquina di più, con prodotti che poi importiamo. È un suicidio industriale travestito da virtuosismo ecologico".

Quindi, come si dovrebbe impostare una transizione seria, secondo lei? "Con tre parole chiave: tempi, tecnologia e competitività. Tempi realistici, che tengano conto del ciclo di vita degli impianti industriali e dei mezzi di trasporto. Neutralità tecnologica, senza imporre per legge un’unica soluzione (per esempio l’auto solo elettrica) ma lasciando competere elettrico, ibrido, biocarburanti, idrogeno, synthetic fuels. E competitività: ogni misura climatica dovrebbe passare un test semplice – rende l’Europa più forte o più debole rispetto a USA e Cina?".

Nel post si dice che “l’inquinamento esiste e va combattuto”, ma che la narrazione apocalittica è pura contaminazione culturale. Condivide? "Condivido la parte sull’inquinamento: è un problema serio, immediato, che tocca salute e qualità della vita. Sulle metropoli soffocate dalle polveri sottili serve meno ideologia e più investimenti concreti. Sulla “narrazione apocalittica”, sì, esiste un racconto mediatico che punta più alla paura che alla responsabilizzazione. Il paradosso è che la paura continua non mobilita le persone, le paralizza. Io preferisco un approccio adulto: spiegare i rischi reali, ma anche le opportunità industriali e occupazionali della transizione".

Che messaggio finale vuole mandare a chi legge queste posizioni sui social e non sa più a chi credere? "Direi questo: non fatevi incastrare nel finto bivio tra “è tutta colpa dell’uomo” e “è solo colpa del Sole”. Il clima è un sistema complesso, l’uomo ha una responsabilità significativa negli ultimi decenni, ma le soluzioni non possono essere ridotte a slogan contro le auto, contro l’industria o contro chi lavora. Difendere l’ambiente e difendere il lavoro non sono obiettivi opposti: lo diventano solo quando la politica smette di ascoltare i dati e comincia a inseguire i titoli dei giornali".



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