Cultura
8 GIUGNO
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Vallo della Lucania, saggio per celebrare i 10 anni del Liceo Musicale Parmenide
Comunicato Stampa
06 giugno 2024 10:43
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VALLO DELLA LUCANIA. Il Liceo Musicale Parmenide festeggia i dieci anni dalla sua istituzione. “Quando ho incontrato per la prima volta gli studenti del Liceo Musicale Parmenide, due anni fa, ho dedicato la mia prima lezione a Leo De Berardinis, di cui ho curato la voce sull' Enciclopedia Treccani”, afferma la professoressa Carmen Lucia. "In occasione del decennale del Liceo musicale Parmenide, ho chiesto a Ruggero Cappuccio, che ha collaborato con Leo De Berardinis all'inizio della sua carriera, di donare ai nostri allievi e ai loro maestri una testimonianza, per celebrare l'istituzione di questa scuola. I nostri sono allievi speciali agli occhi di chi "abita il mondo del teatro", perché hanno il privilegio di suonare in un teatro che porta il nome di un artista visionario, che ha segnato la storia del teatro ed è legato al Cilento, per le radici segrete, proprio come Ruggero Cappuccio".

La sera del saggio, in programma sabato 8 giugno, a partire dalle ore 18:30, ascolteremo anche le profonde e belle parole di Ruggero Cappuccio, parole di luce e amore per gli infiniti mondi del teatro e della musica, riconosciuta dall'UNESCO come un patrimonio unico, che accresce i valori formativi e culturali della persona. 

“Ritaglio il mio saggio della Treccani, con brevi sequenze in cui parlo dell'eredità di Leo e di Ruggero Cappuccio, sperando che il daimon di questi due grandi artisti contamini le anime e i talenti dei nostri giovani allievi”, prosegue la Lucia. Auguri a tutti, al nostro dirigente che ha fortemente voluto l'istituzione di questa scuola, ai maestri, al personale docente e non docente, ai nostri meravigliosi allievi"

Fonte: Treccani, voce a cura di Carmen Lucia (citazioni): 

"Leo de Berardinis, regista, drammaturgo e attore, è stato un grande eversore del linguaggio teatrale del Novecento, a partire dall’uso del patrimonio dialettale che considerava un antidoto all’“antilingua”; un visionario, capace di creare un linguaggio ardito, sperimentale, che sceglieva la devianza e la marginalità, contaminando la tradizione colta di Shakespeare, Cervantes, Dante, Pirandello con la comicità popolare, l’espressività della sua voce con i linguaggi del cinema e il jazz. [...] E' un teatro segnato da una forte tensione verso la sperimentazione di segni nuovi, differenti, che porta a una contaminazione e a un informale attraversamento tra i diversi linguaggi espressivi e anche tra i generi teatrali: tra cui il jazz, la sceneggiata, le canzonette e la pubblicità degli anni Sessanta e Settanta (Tintarella di luna, Arrivano i nostri, Nel continente nero), il cinema di Totò e Peppino, gli "stupidari" petroliniani, la commedia dell’arte, fino all'inserimento di ‘echi della cronaca’, o ‘spunti anche spiccioli ricavati dalle cronache’. In questo coagulo di forme e di registri espressivi continuo, il rito dell’evocazione da solitario diventa collettivo in una scena dove si intrecciano le sonorità del dialetto e la cultura popolare, fusi in una babele anamorfica e in un teatro-rito, molto evocativo e onirico, che coinvolge attori e pubblico. Un segno costante della drammaturgia di scena di De Berardinis è la contaminazione. L’eredità di Leo ha insegnato che scrivere per il teatro è dare spazio al non detto, che sperimentare nuovi linguaggi può coincidere con la riscoperta della tradizione, che disgregare un classico in funzione del riuso può significare ritrovare e rifondare un mito come quello della commedia dell’arte attraversata nell’opera Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelkin e Leòn De Berardinis (1996), per coniugare la comicità sfrenata con la sacralità di un requiem o di una funerea danza di morte, per sospendere il personaggio o la maschera in funzione di un graduale e contraddittorio rivelarsi. Non pochi sono i drammaturghi che continuano questa eredità; soprattutto per le scelte drammaturgiche vissute come un ensemble poetico fra tradizione alta e bassa, una partitura densa di sonorità inaspettate tra le escursioni nell’oralità popolare e nella lingua letteraria delle fonti classiche, per le scelte pluristilistiche e dialettali in funzione antimimetica (si pensi a Enzo Moscato, Ruggero Cappuccio e Franco Scaldati). In particolare, Ruggero Cappuccio, drammaturgo e regista, eredita il senso della scrittura teatrale intesa come un’unità endiadica: due tradizioni e due lingue, Shakespeare e Basile, confluiscono in un’unica partitura nell’opera Shakespeare di Napoli (2002) che proprio De Berardinis, allora direttore artistico, volle per una rappresentazione sulla Rocca malatestiana per il Festival di Santarcangelo. In una partitura corale la langue brute, significativamente dialettale, il dialetto di Basile del Seicento e i versi del grande Bardo si contaminano in una proteiforme suggestione visionaria, in risonanze di forte suggestione musicale e ritmica Incline all’elaborazione artistica in progress a partire dai corpi degli attori e dalle voci dei personaggi, dal luogo in cui si svolge lo spettacolo (una cantina, una piazza, una masseria), quello di De Berardinis, come dell’avanguardia di quegli anni legata ai nomi di Ricci, Perlini, Carmelo Bene, Vasilicò, è un teatro che pretende l’evento scenico, si realizza compiutamente nello spazio visivo e sonoro dello spettacolo; così Nadia Baldi attrice e regista ne ricorda le regie, l’allestimento delle luci nella determinazione dello spazio scenico ereditando, come Elena Bucci, la lezione anche di pedagogia teatrale, a cui oggi ancora si ispirano molti laboratori d’attore: “A ventisei anni, in Re Lear a tre regie (con de Berardinis, Santagata Cappuccio) io volteggiavo sui pattini nel ruolo di Regana. Ricordando la sua arte nei miei laboratori, parlo sempre di Leo con i giovani attori perché mi piacerebbe riuscire a trasmettere quello che lui ha trasmesso a me, la magia del vero teatro e del teatro vero. Leo de Berardinis è stato un regista visionario che, legando la tradizione alla sperimentazione formale, ha creato metafore, capovolgimenti fertili, urti stilistici e contaminazioni che continuano ad accendere visioni utopiche per un teatro che vuole ancora essere «una cosa unica: l’unica poesia vivente, l’unica poesia incarnata”. 



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